Ricercatori della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica di Roma hanno scoperto un importante meccanismo di resistenza farmacologica operato da un tumore molto aggressivo e attualmente poco curabile – l’epatocarcinoma – per sfuggire all’azione dell’unico farmaco oggi in uso, individuando una possibile strategia per potenziare l’azione del farmaco ed accrescere le chance di cura oggi non
molto alte.
È il risultato di uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports – edita dal gruppo Nature – dal dottor Giovambattista Pani, ricercatore dell’Istituto di Patologia generale e dall’équipe del professor Antonio Gasbarrini, Ordinario di Medicina interna e gastroenterologia presso l’Università Cattolica- Policlinico A. Gemelli di Roma. Lo studio, molto articolato, ha coinvolto numerosi altri ricercatori, sia dell’Università Cattolica (Giuseppe Maulucci, Istituto di Fisica; Roberto Scatena, Istituto di Biochimica Clinica) sia stranieri (Prof. Hans Spelbrink, Finlandia).
“Abbiamo scoperto una possibile strategia per potenziare l’azione del farmaco” – sottolinea il dottor Pani - “che consiste nel limitare l’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule maligne; infatti esistono già diversi tipi di agenti (ad esempio composti ipoglicemizzanti o bloccanti dei trasportatori del glucosio) che potrebbero essere affiancati al Sorafenib, l’unico farmaco oggi disponibile, per potenziarne l’effetto”.
“Utilizzando delle cellule staminali di epatocarcinoma in provetta fornite dal team del professor Gasbarrini e trattandole con Sorafenib - racconta il dottor Pani - abbiamo osservato che il farmaco oltre a esercitare gli effetti già noti sugli oncogeni, danneggia fortemente i mitocondri delle cellule tumorali, le centraline energetiche di tutte le cellule. Abbiamo visto che le cellule tumorali sono molto furbe e rispondono al danno mitocondriale subito a opera del farmaco potenziando l’efficienza di una sorgente alternativa di energia, la cosiddetta ‘glicolisi anaerobia’”. Ecco perché solo poche cellule tumorali (circa il 30-40% nelle condizioni sperimentali esaminate) muoiono in risposta al Sorafenib.
Di qui è scaturita l’idea per aggirare questo ‘trucchetto’ messo in atto dal tumore. “Bloccando contemporaneamente anche la glicolisi anerobia con un altro agente – rileva il dottor Pani – abbiamo visto che l’azione curativa del Sorafenib migliorava drasticamente, fino a raggiungere il 100%”.
Per dimostrare inequivocabilmente questo meccanismo sono state anche utilizzate delle cellule molto sofisticate, ingegnerizzate con un interruttore genetico che consente di “accendere” e “spegnere” a piacimento l’attività mitocondriale per mimare l’azione del farmaco.
Queste osservazioni, ancorché compiute esclusivamente in vitro, sono particolarmente importanti perché evidenziano un nuovo meccanismo di resistenza tumorale al farmaco (cioè l’aumento della glicolisi anaerobia che sopperisce al danno mitocondriale) e indicano una possibile strategia combinata per potenziare moltissimo l’azione del farmaco in terapia umana. Al momento gli inibitori della glicolisi disponibili sono molto tossici, ma è auspicabile che nel prossimo futuro possano essere messi a punto nuovi agenti più maneggevoli da accoppiare al Sorafenib nella terapia dell’epatocarcinoma primitivo.
Questi esperimenti sono altresì importanti perché compiuti su cellule staminali tumorali, ovvero sulla sorgente stessa del tumore, attualmente il bersaglio d’azione preferenziale di ogni nuova terapia.
Fonte://www.policlinicogemelli.it/
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